Il testo tedesco originale di Hermann Hesse (riprodotto in calce) presenta una singolare struttura: quattro terzine in cui il primo e l’ultimo verso rimano tra loro ed il secondo presenta una rima interna come a strutturare una armatura metrica in cui l’autore chiude il suo orgoglio e la sua fragilità, entrambi originati dalla stessa forza.
Da questa fortezza poetica egli osserva il mondo ma se ne sente tradito percependo intuitivamente ciò che in psichiatria venne spiegato molto più avanti: il senso di profonda dignità e autostima per un talento ed una profonda sensibilità che al tempo stesso producono emarginazione dal resto del mondo che non comprende e di conseguenza “tradisce” il poeta ma soprattutto l’uomo.
Questo profondo slancio intellettuale e la forza intuitiva rendono l’autore un re, un guerriero, una dimora per se stesso… Ma sono tutte immagini destinate al fallimento poiché egli si trova senza corona, senza spada e senza focolare… Gelido ed inerme di fronte all’apparente contraddittorietà secondo cui egli stesso si “ammala della propria forza”… Collassando così sul suo stesso ardore.
Hesse si definisce un mare in tempesta, ricordando che questo elemento viene inteso tradizionalmente in poesia sia come occasione di un percorso per lo più ciclico, sia come luogo di pericolo ed imprevedibilità. È così che il poeta si sente: una forza che esce dal suo stesso controllo, percependo la sua prigione con un senso di colpa che “somma ai vecchi nuovi peccati”. Ricordo a questo punto che le tradizionali traduzioni riportano in italiano “un mare urlante che accumula vecchi peccati e ai nuovi rende mercede”, ma la mia scelta nella traduzione è diversa, come riportato nell’immagine, per fedeltà all’intenzione comunicativa dell’autore come spiegato nel mio breve saggio sulla poesia in Controversi (http://amzn.to/2hkBrKR), dove tratto brevemente anche le questioni di aderenza linguistica.
L’orgoglio che educa e tradisce il poeta non è una tracotanza eroica bensì una necessità di autodeterminazione che sembra essere punita dall’incomprensione del mondo, traducendosi in un’anticipazione della possibile esplosione della stella del firmamento, ovvero quella speciale scintilla che brilla nella mente di pochi.
Il componimento porta alla luce senz’altro una tematica rara quanto attuale: spesso gli individui che il mondo contemporaneo chiamerebbe volentieri “outsider” sono coloro che hanno qualcosa in più ed, intrappolati nei canoni e nelle percezioni della massa e del mondo circostante, risultano essere veramente chiusi fuori da questo universo fino a generare dolore e malattia. Non era così diverso il grido di una matura Virginia Woolf che quando si arrese all’inadeguatezza del mondo a se stessa, sebbene lei credesse che fosse il contrario, venne condotta addirittura al suicidio. Il suo talento e la sua incredibile sensibilità l’avevano portata a vivere qualche passo avanti rispetto alla società e quindi a camminare da sola. La sua complessità emotiva la portò di conseguenza a crollare psicologicamente e, poi, fisicamente nel fiume Ouse con alcuni sassi nelle tasche. Anche per lei l’acqua aveva un valore particolare e nella ciclicità di “Waves” o nel viaggio di “To the Lighthouse” (Gita al Faro) cercò di trovare quella compiutezza del suo ciclo personale che non fu invece mai concluso nella realtà e scivolò via nella corrente del fiume.
Il mare di Hesse è ugualmente orgoglioso ma nel suo dolore si scioglie anche una catarsi profonda che trascende il significato umano assumendo un’accezione universale in cui il cielo (la stella) e la terra (il mare) si incontrano in un crocevia di tumultuose forze contrastanti, ovvero l’autore stesso. Lo immaginiamo ammalato di questa febbre prometeica ma ancora fortemente convinto del potenziale del suo Siddharta interiore.
Sara Albanese